Lavoro, chi seleziona il personale deve guardare al futuro

Il processo di selezione del personale tradizionalmente prevede di premiare con l’assunzione il candidato con le migliori competenze e le capacità più adatte a soddisfare i bisogni dell’organizzazione. Attraverso l’analisi del curriculum vitae, le referenze e l’immagine online del candidato, chi si occupa di recruiting compone un’istantanea dei profili migliori, per poi scegliere quello più idoneo in base alle esigenze dell’azienda. Per questo motivo, negli annunci di lavoro, viene elencata una serie di requisiti fondamentali che devono trovare risposta nei curricula inviati.
Ma è davvero sufficiente focalizzarsi sul ‘presente’ al momento della selezione del personale? Secondo Carola Adami, fondatrice di Adami & Associati, società internazionale di head hunting specializzata nella selezione di personale qualificato e nello sviluppo di carriera, la risposta è no.

Il recruiter deve concentrarsi soprattutto sul ‘domani’

“Chi struttura un processo di selezione del personale pensando alle necessità attuali dell’azienda sbaglia, per il semplice fatto che quel candidato non dovrà lavorare oggi – spiega Adami -. No, sarà al lavoro domani, il giorno dopo e il giorno dopo ancora, e per questo motivo chi si occupa di recruiting non deve pensare unicamente al presente, concentrandosi invece anche e soprattutto sul futuro”.
Certo, un tempo era possibile concentrarsi solamente sul presente. Fino a qualche decennio fa, infatti, i cambiamenti all’interno dei vari settori erano piuttosto lenti. Oggi la situazione è invece profondamente diversa.

È necessario aggiornarsi continuamente

“La società sta cambiando velocemente, e l’evoluzione tecnologica sta correndo ancora più rapidamente – aggiunge l’head hunter -. Questo significa che per rimanere al passo è necessario aggiornarsi continuamente, senza mai smettere di imparare. Dal punto di vista di chi si occupa di ricerca e selezione del personale vuol dire anche che non bisogna assumere ciecamente chi soddisfa i criteri richiesti dall’azienda oggi, bensì chi riuscirà a farlo domani e dopodomani, andando oltre i titoli e le hard skills”.
La semplice analisi del curriculum vitae può quindi dare solo una prima idea sulle effettive capacità del candidato. Per effettuare la scelta giusta è necessario condurre interviste in profondità, e soprattutto, conoscere bene quelli che potranno essere gli sviluppi del settore.

Studiare profondamente il candidato e conoscere il settore specifico

 “Questo significa che la selezione del personale deve essere fatta a partire da uno studio profondo dei candidati, nonché da una conoscenza specialistica del settore: non è un caso se la nostra società di head hunting può contare su cacciatori di teste specializzati in singoli settori – sottolinea Adami -. Un recruiter che si presta a processi di selezione per qualsiasi settore, dall’automotive al marketing, dal retail alla sanità, non può infatti avere le competenze sufficienti per capire davvero di cosa ha e avrà bisogno un’azienda per continuare a essere competitiva”.

Mobile, lo smartphone si cambia ogni anno

Lo smartphone? Un oggetto di cui non possiamo fare a meno, che contiene un’infinità di informazioni sulla nostra vita e che ci “aiuta” in innumerevoli faccende quotidiane, sia per il lavoro sia per il tempo libero. Eppure, non siamo fedeli allo stesso apparecchio: secondo uno studio condotto da GWI e TEADS, oggi gli utenti sono meno fedeli al marchio e più propensi a cambiare brand di smartphone, in particolare valorizzando aspetti come le prestazioni del device e privilegiando smartphone innovativi e funzionali. Insomma, si cambia spesso per garantirsi le migliori performance.

I brand più apprezzati

In Italia uno dei marchi più apprezzati è Xiaomi, il terzo brand per numeri di vendita dopo Samsung e Apple secondo i dati di Strategy Analytics, un marchio in forte crescita a livello globale e sempre più forte anche in Spagna e in molti paesi dell’America Latina come il Messico e il Brasile. Però, come riporta Adnkronos, se da un lato molte persone vogliono cambiare telefono e optare per soluzioni più efficienti e adatte alle proprie esigenze, dall’altro una delle principali difficoltà è il trasferimento dati. Passare i dati dal vecchio telefono al nuovo smartphone non è semplicissimo, soprattutto quando il trasferimento dati deve essere effettuato con alcune marche di device mobile che non facilitano questo processo. In alcuni casi esistono delle applicazioni native dei brand, oppure dei servizi di terze parti, tuttavia spesso questi programmi presentano delle limitazioni che non consentono di realizzare un trasferimento dati veloce, sicuro e completo tra due smartphone. Fortunatamente, però, oggi esistono delle soluzioni che permettono di risolvere questo problema in modo efficiente.

Come fare il trasferimento dei dati

Se si acquista il celebre smartphone cinese, ad esempio, sarà necessario trasferire i vecchi dati nel nuovo device. Se il telefono che si sostituisce è Android,  è possibile utilizzare Wondershare MobileTrans, un moderno software che consente di trasferire dati, effettuare backup e ripristinare dati tra telefoni in maniera facile, rapida e sicura. Con la guida specifica Trasferire Dati Xiaomi, disponibile sul sito ufficiale, è possibile realizzare questo procedimento in un click, risparmiando tempo e superando le restrizioni delle altre soluzioni disponibili. Allo stesso modo si opera anche per il trasferimento da un iPhone, semplicemente utilizzando la guida sul sito ufficiale oppure usando un software specifico per il “passaggio”.

I monopattini in condivisione fanno crescere la Sharing Mobility

Negli ultimi due anni la micromobilità, in particolare quella dei monopattini in condivisione, ha compiuto un vero e proprio balzo in avanti. Secondo i dati dell’Osservatorio Sharing Mobility, nel periodo 2015-2019 l’intero settore è cresciuto costantemente, mentre il crollo del 2020, dovuto alla pandemia, è stato attutito proprio dall’implemento del monopattino. Se si facesse riferimento ai servizi consolidati del car sharing, bikesharing e scootersharing la caduta sarebbe, infatti, del 49%. Prendendo come riferimento 6 città campione (Milano, Torino, Roma, Bologna, Cagliari, Palermo), nel 2021 l’Osservatorio registra un aumento esponenziale del noleggio del monopattino. Una tendenza non solo italiana, quella di “muoversi con leggerezza”, ma simile a quanto accade in Europa.

Micromobilità anche nei piccoli centri urbani
La tendenza all’utilizzo di veicoli leggeri sta riducendo il peso medio delle flotte dei veicoli condivisi, e si sta per raggiungere la proporzione di 1 a 1 tra peso del veicolo e del trasportato. Inoltre, i fornitori di servizi di monopattini in condivisione si stanno sempre più evolvendo in fornitori di servizi di micromobilità, spesso offrendo due o tre servizi: monopattino, bici elettrica, scooter elettrici. Le tre offerte di micromobilità riescono a trovare un equilibrio tra esigenze di business dell’operatore e qualità del servizio: una soluzione che inizia ad allargarsi anche ai piccoli centri. Negli ultimi mesi cresce, infatti, l’offerta di micromobilità in piccole città a vocazione tendenzialmente turistica. Insomma, la Sharing Mobility non è più relegata ai grossi centri urbani.

Aspetti normativi e codice della strada
Anche a livello normativo i monopattini hanno trovato una loro configurazione, e se nel 2018 si parlava di una fase sperimentale oggi la situazione è più delineata. E per quanto riguarda le norme sulla circolazione non si tratta di rafforzare le regole, ma di rafforzare i controlli. Un problema è quello della sosta selvaggia, problema di non facile soluzione, in quanto la maggior parte dei centri italiani ha una morfologia dove sono pochi gli spazi a disposizione, sempre più contesi da altri soggetti, come ad esempio le colonnine di ricarica auto. La proposta dell’Osservatorio è di individuare punti lungo le strade urbane che diventino gli spazi di riferimento dove parcheggiare i mezzi. Ad esempio, negli spazi a ridosso degli incroci.

Diffusione del monopattino condiviso
Di sicuro, il monopattino è un mezzo che si adatta molto bene alle esigenze di mobilita delle amministrazioni comunali, ed è uno strumento che risponde a esigenze specifiche di mobilità.
L’esperienza del Comune di Milano mostra che per le amministrazioni comunali è positivo e sensato avvalersi di aziende private specializzate nella mobilità condivisa. È altresì importante che vengano dotate di strutture in grado di monitorare, controllare e dare il giusto feedback agli operatori di settore. Questo mix di delega e controllo permette di sfruttare al massimo le potenzialità della mobilità condivisa, e diminuirne le problematiche.

Metà degli italiani sa cos’è la Smart City

Quando si parla di Smart City l’idea è associata a innovazione tecnologica e sostenibilità ambientale. Le caratteristiche fondamentali per una città tech, sono infatti sostenibilità ambientale, sicurezza, efficienza energetica e mobilità intelligente. Intel, l’azienda americana che produce dispositivi e semiconduttori, ha effettuato una ricerca sugli italiani e la Smart City, realizzata con la collaborazione di Pepe Research. Lo studio rivela che il concetto di Smart City è conosciuto da circa metà degli italiani, soprattutto dai giovani. Tuttavia, le priorità tra le diverse fasce di età che conoscono questo termine divergono: se i giovani più maturi danno maggiore importanza alla sicurezza, la generazione Z dimostra maggiore attenzione alla sostenibilità ambientale.

Milano, Bologna e Padova le più smart dello Stivale

La mobilità intelligente è più importante, invece, per coloro che vivono in una grande città in cui i problemi di traffico impattano sulla vita quotidiana. Le città italiane dovranno affrontare ancora molti passi per raggiungere il percorso smart al 100%: solamente il 13% dei cittadini ritiene di vivere in una città abbastanza smart. Gli italiani però sono orientati a un futuro Smart City, infatti il 68% crede che la propria città sarà più smart tra 10 anni. Milano è in cima alla classifica delle città più smart d’Italia, con una valutazione 6,2/10, seguita da Bologna e Padova, con 6/10. Seguono Napoli, Genova e Catania, mentre Roma raccoglie una valutazione di 4,3/10. 

Avviare piani di intervento intelligente sull’ambiente

“Gli italiani sono legati al loro territorio, tuttavia l’idea della Smart City è effettivamente attraente, con un 60% di cittadini che si dichiara disposto a trasferirsi in una Smart City se si trovasse nella sua regione – ha dichiarato Elena Salvi, Partner di Pepe Research -. Attualmente gli italiani riconoscono un livello di ‘smartness’ alle loro città quando si tratta di economia locale, servizi e mobilità, ma sono convinti che sia necessario ancora parecchio lavoro per quanto riguarda l’ambiente e la cittadinanza attiva. Ora – ha spiegato Salvi – è il momento giusto per portare avanti piani di intervento intelligente sull’ambiente, un elemento fondamentale nel rendere più attrattive le nostre Smart City”.

Lavorare smart

La maggioranza dei lavoratori italiani poi sarebbe disposta a trasferire la propria attività lavorativa in una Smart City. Questo, se fosse a mezz’ora di distanza dalla propria residenza (87%), mentre il 57% ha indicato un’ora di distanza, e il 29% sarebbe disponibile a una trasferta di due ore per accedere a uno stile di vita più smart. Ma c’è anche chi è disposto a investire per far diventare la propria città una Smart City. Un concetto che si avvicina all’idea di Smar City è lo smart working. L’idea di smart working, riporta Italpress, ha rivoluzionato le idee degli italiani sia in modo positivo sia negativo. Il 79% infatti apprezza lo smart working e vorrebbe continuare a lavorare in questa modalità, ma ritiene che vadano migliorati alcuni aspetti del lavoro in modalità remota.

Obiettivo matrimonio in “grande”: aumentano le richieste di prestiti per dire sì

Dopo il lungo periodo di restrizione, gli italiani hanno voglia di tornare a festeggiare in grande. E il desiderio riguarda in particolare modo il matrimonio, per molti ritenuto il giorno più importante della vita. La conferma arriva da una nuova indagine di Facile.it e Prestiti.it, condotta su un campione di oltre 30.000 domande di prestiti personali, che ha messo che in evidenza come questa tipologia di prestiti sia in forte aumento. Solo nei primi tre mesi del 2022, infatti, il peso percentuale delle richieste di finanziamento per matrimoni e cerimonie è aumentato del 46% rispetto allo stesso periodo del 2021; il 12% in più se confrontato con i livelli pre-pandemia rilevati nel primo trimestre 2019. In base alle stime del comparatore, i finanziamenti erogati nel corso del trimestre per far fronte a questo tipo di spesa equivarrebbero a circa 100 milioni di euro. E per quanto riguarda la somma richiesta? La cifra in media si attesta a 9.856 euro, valore in linea con quanto rilevato nel 2019, da restituire in 60 rate (5 anni). In calo, invece, l’età media dei richiedenti, che è passata dai 40 anni del periodo pre-Covid ai 37 anni rilevati nei primi tre mesi del 2022.

La ripresa dell’industria dei matrimoni

L’analisi conferma anche che il business dei matrimoni si p rimesso in moto dopo le limitazione dei due anni passati, e questo grazie soprattutto all’intraprendenza delle spose. 
“Grazie all’allentamento delle restrizioni il 2022 è visto da molti operatori del settore come l’anno di ripresa per l’industria dei matrimoni e i dati sulla richiesta dei prestiti personali sembrano confermare questo trend”, afferma Aligi Scotti, BU Director prestiti di Facile.it. “Positivo il calo dell’età media dei richiedenti su cui hanno avuto un peso anche le politiche a sostegno dei giovani introdotte dal Governo, in particolare le agevolazioni per l’acquisto della casa e la sottoscrizione di mutui rivolti agli under 36”. Un altro dato interessante è che chi fa richiesta di un prestito personale per spese legate ai matrimoni e cerimonie è, nel 40% dei casi, una donna; il valore risulta nettamente superiore alle altre tipologie di prestito personale, dove il campione femminile normalmente rappresenta meno del 25% della domanda.

Non solo nozze

Allargando l’analisi alle richieste totali di prestiti personali raccolte online emerge che, nel primo trimestre 2022, gli italiani che si sono rivolti ad una società di credito hanno cercato di ottenere, in media, 11.502 euro. Il valore risulta non solo superiore a quello del 2021 (+4%), ma anche più alto rispetto all’importo medio richiesto pre-Covid (11.200 euro nel primo trimestre 2019).
Guardando alle finalità dichiarate in fase di domanda emerge che la prima ragione che ha spinto gli italiani a rivolgersi ad una società di credito è stata la richiesta di liquidità (32%), seguita da quelle per l’acquisto di auto usate (18%). In forte aumento la richiesta per il consolidamento debiti, che rappresenta circa il 15% delle domande; il dato va letto alla luce dell’andamento dei tassi di interesse che, nel primo trimestre dell’anno, sono rimasti estremamente favorevoli offrendo così ai consumatori la possibilità di consolidare debiti già in corso, in alcuni casi anche risparmiando sulla rata del finanziamento.

Quanto costa aprire una Partita Iva nel 2022?

Aprire la partita IVA nel 2022 può rivelarsi un’ottima idea, perché oggi è possibile approfittare di alcune agevolazioni decisamente interessanti, che consentono di risparmiare parecchio in termini di tassazione, e non solo. Sicuramente, a coloro che intendono aprire una propria attività da autonomi, conviene aderire al regime forfettario, che prevede un’aliquota molto più bassa rispetto a quella del regime ordinario, e costi generali nettamente inferiori. L’unico vincolo riguarda il fatturato annuo incassato, che non deve superare i 65.000 euro. Ma quanto costa in dettaglio aprire una partita IVA nel regime forfettario? 

Costi nel regime forfettario e per la consulenza fiscale

Per attivare una partita IVA in regime forfettario i costi sono variabili a seconda dell’inquadramento fiscale e del servizio di consulenza al quale ci si appoggia. Mentre i professionisti possono portare a termine l’operazione totalmente a costo zero, per artigiani e commercianti bisogna preventivare circa 100 euro di spese vive, alle quali si aggiunge l’onorario del consulente che si occuperà delle incombenze burocratiche. Altri costi che bisogna considerare nel momento dell’apertura della partita IVA sono infatti quelli relativi al commercialista. Si tratta quindi di predisposizione del Modello Redditi, e degli F24 per il versamento delle imposte e dei contributi. Gli importi possono variare a seconda del professionista al quale ci si rivolge, ma esistono servizi online come Fiscozen, che propone un abbonamento comprensivo di tutti gli aspetti legati alla gestione della Partita IVA, dalle tariffe decisamente vantaggiose. Si spendono solamente 299 euro oltre all’IVA all’anno, e il pacchetto comprende tutti i servizi che solitamente sono in capo al commercialista.

Tasse

Un’altra voce di spesa che tutti coloro che aprono partita IVA devono considerare è quella relativa alle tasse e ai contributi previdenziali. In questo caso si tratta di costi variabili, che vengono calcolati sulla base del reddito effettivo. Aprendo partita Iva in regime forfettario, però, si ottengono vantaggi non indifferenti da questo punto di vista. L’aliquota applicata per i primi 5 anni è del 5%, mentre a partire dal sesto anno è del 15%. Nettamente inferiore rispetto a quella che devono corrispondere i contribuenti che operano in regime ordinario. 

Contributi previdenziali e costi extra

Bisogna poi considerare i contributi previdenziali, il cui ammontare dipende dalla Cassa di riferimento, riporta Adnkronos.. Si va dal 25,72% del reddito lordo per i professionisti iscritti alla Gestione Separata INPS, a un contributo fisso di circa 3.850 euro, dovuto a prescindere dal reddito, per le ditte individuali. È importante ricordare che durante la propria attività i titolari di partita IVA potrebbero avere costi extra da sostenere, come quelli relativi all’emissione di fatture elettroniche (che presto dovrebbero diventare obbligatorie anche per i forfettari). Inoltre, chi acquista o presta servizio verso committenti europei è tenuto a presentare il Modello Intrastat. Alcuni servizi come Fiscozen prevedono un abbonamento comprensivo anche di questi costi, ma ci sono commercialisti che fanno pagare queste pratiche extra.

Lunga vita ai device con le dritte dell’esperto

Quella dei rifiuti tecnologici sta diventando sempre di più un’emergenza: in base agli ultimi dati del Global E-Waste Monitor, che segnala come aumentino le apparecchiature da smaltire, solo nell’ultimo anno ha raggiunto la quota monster di 58 milioni di tonnellate. La colpa di questo fenomeno? Principalmente della vita breve, se non brevissima, dei nostri device e pc. Le ragioni di questa senescenza rapida sono diverse: dal desiderio dei consumatori di seguire sempre le ultime mode, come se lo smartphone fosse uno status symbol; un po’ perchè i device tendono a invecchiare precocemente, e dopo un po’ non possono più essere aggiornati alle versione successive; inoltre, pare, perchè alcune case dotano i loro apparecchi di una sorta di obsolescenza programmata che a un certo punto – anche una manciata di mesi – li fanno smettere di funzionare correttamente. Insomma, siamo condannati a sostituire sovente le nostre apparecchiature, ma non necessariamente tutto è perduto: a maggior ragione se abbiamo a cuore il nostro pianeta, e vogliamo evitare di accumulare ancora rifiuti elettronici, qualcosa dobbiamo fare.

La parola all’esperto 

Si chiama Brian X. Chen ed è l’esperto di tecnologia del New York Times. Proprio lui ha stilato una serie di consigli per far vivere di più gli apparecchi hi-tech, consigli ripresi da Agi. In particolare, Chen avvisa in merito agli aggiornamenti software: non necessariamente devono essere istallati in modo automatico. Gli aggiornamenti, per l’esperto, si possono anche ritardare. Però dobbiamo seguire alcune regole in fatto di sicurezza.
Dopotutto, non è realistico per tutti eseguire l’aggiornamento secondo i programmi di un’azienda tecnologica: alcuni dispositivi, inclusi i telefonini Android, smettono di ricevere aggiornamenti software dopo soli due anni. Non tutti abbiamo il tempo o il denaro per acquistare nuovi prodotti regolarmente. Allo stesso tempo, però, non vogliamo utilizzare gadget vulnerabili a bug, attacchi informatici e altri difetti. Gli aggiornamenti, per l’esperto, si possono anche ritardare. Però dobbiamo seguire alcune regole in fatto di sicurezza.

Le altre regole

Per far durare di più smartphone, tablet e pc, l’esperto consiglia poi suggerisce di mantenere sempre aggiornato il proprio browser, di evitare comportamenti a rischio (ad esempio bisognerebbe utilizzare solo app certe), di proteggere il proprio account online con l’autenticazione a due fattori e di installare sul proprio computer un sistema operativo diverso, ad esempio Linux che è un open source. E quando è l’hardware a essere troppo vecchio? Si può utilizzare in sicurezza disattivandone la connessione Internet per usarlo per attività leggere come riprodurre musica o annotare ricette. 

Quando finirà la pandemia? Ancora tanta incertezza sul ritorno alla normalità

Quando finirà la pandemia? Per esplorare l’opinione pubblica sulla fine della pandemia e il ritorno tanto agognato alla normalità post-Covid Ipsos ha condotto un sondaggio globale in 33 Paesi. La campagna vaccinale continua a passo spedito, ma la marcia del Coronavirus non sembra essersi ancora fermata. E tra la speranza che a breve si possa tornare alla normalità e l’ancora presente timore del contagio tutti si stanno chiedendo quando si uscirà definitivamente da questa pandemia globale. E in generale, a quanto emerge dalla ricerca Ipsos, a livello internazionale attualmente non c’è una convergenza di opinione, e permane ancora tanta incertezza. Se infatti per il 20% degli intervistati a livello globale la fine della pandemia è collegata a quando il 75% della popolazione sarà vaccinata, per il 19% quando la trasmissione del virus si sarà fermata completamente.

Quale segnale decreterà la fine dell’emergenza?

E ancora, per il 17% la pandemia finirà quando la situazione negli ospedali si sarà normalizzata per almeno un mese, e per il 12% quando ci saranno invece meno di 10 casi per milione di abitanti. C’è però ancora tanta incertezza sul tema, segnalata dal 14% degli intervistati che non ha idea di quale sia il segnale che decreterà la fine dell’emergenza. Gli italiani però, dato l’avanzamento della campagna vaccinale, hanno opinioni leggermente divergenti rispetto alla media degli altri Paesi: per il 27% la pandemia finirà quando la trasmissione del virus si sarà fermata definitivamente, per il 17% quando la situazione degli ospedali tornerà alla normalità, un altro 17% non ha idea, e solo per l’11% finirà quando il 75% della popolazione verrà vaccinata.

Tra quanto tempo torneremo a una vita come prima?

Ipsos ha anche chiesto agli intervistati tra quanto tempo potremmo tornare a una vita come quella precedente alla pandemia. E per il 27% a livello internazionale bisognerà aspettare più di un anno da ora, per il 25% entro l’anno, per il 20% nei prossimi 6 mesi, mentre il 14% ritiene che sia già possibile tornare a una vita normale senza restrizioni. Considerando i dati aggregati di tutti i 33 Paesi si nota che più del 66% dei cittadini intervistati pensa che non riusciremo a tornare alla normalità prima di 6 mesi, un dato che sottolinea ancora grande preoccupazione e l’opinione che la crisi non sia ancora del tutto superata.

Immaginare un futuro senza Green Pass

Gli italiani anche in questo caso hanno un’ottica diversa, infatti, per il 36% degli intervistati bisognerà aspettare più di un anno, per il 22% entro l’anno e per il 17% entro i prossimi 6 mesi. Un risultato che registra ancora diffidenza riguardo la fine della pandemia. Dall’inizio della pandemia, il team Public Affairs di Ipsos indaga le opinioni degli italiani in merito all’emergenza Covid-19. L’ultimo aggiornamento del consueto monitoraggio di Ipsos, Come e quando finirà il Green Pass?, registra una diminuzione della minaccia percepita (forse complice anche lo spostamento dell’allerta causato dalla guerra Russia-Ucraina), e raggiunge nuovi valori minimi rilevati dallo scoppio della pandemia. Gli italiani stanno quindi iniziando a immaginare un futuro connotato da una preoccupazione limitata per il Covid-19? 

Gender equality: i risultati del report annuale di Win International

Nella Giornata Internazionale della Donna WIN International, il network internazionale di ricerche di mercato di cui BVA Doxa fa parte, ha rilasciato l’Annual WIN World Survey – WWS, l’ultima indagine su gender equality, violenza e molestie sessuali, per comprendere quali sono i cambiamenti in Italia e nel mondo in termini di pari opportunità e diritti. E la casa anche quest’anno conferma risultati più positivi in termini di parità dei diritti. Considerando le diverse situazioni e i luoghi in cui misurare il gender equality, alla fine del 2021 il 70% della popolazione globale ritiene infatti che la parità di genere sia stata raggiunta nelle case, e in Italia la percentuale (69%) è poco inferiore al risultato globale.

Parità di genere e lavoro

Il 60% della popolazione mondiale ritiene che la parità di genere sia stata raggiunta anche sul posto di lavoro, ma con un dato inferiore per chi è impegnato in politica (50%). In Italia la percezione è diversa e meno paritaria: solo il 38% ritiene che la parità di genere si sia raggiunta al lavoro, percentuale che scende al 37% nell’area politica. Quanto alle opportunità di lavoro e carriera, a livello globale il 37% della popolazione ritiene che le donne abbiano le stesse opportunità lavorative e di sviluppo professionale degli uomini, una percentuale più bassa secondo le dirette interessate (32%). Di contro, il 45% degli intervistati (55% tra le donne) ritiene che le donne abbiano meno opportunità rispetto agli uomini. Inferiori alla media i dati italiani: il 71% vede meno opportunità per le donne rispetto agli uomini, e solo il 22% ritiene che siano rispettate le pari opportunità lavorative.

Violenza fisica e psicologica

Per quanto riguarda i risultati sulla violenza fisica e psicologica subiti dalle donne, rispetto agli anni scorsi sono stabili, con il 16% delle donne a livello globale che nel 2021 afferma di aver subito violenze fisiche o psicologiche (17% nel 2020 e 16% nel 2019). E l’Italia è in linea con queste percentuali (15%). Tuttavia, osservando i dati per macroaree, si trova qualche piccolo miglioramento. In Africa, nelle regioni del MENA, dell’APAC e nelle Americhe, il net score delle donne che hanno subito violenze decresce rispettivamente a -7, -5, -2 e -1. A subire maggiormente violenza fisica e psicologica sono le giovani donne di età compresa tra i 18 e i 24 anni (22%), anche se la percentuale decresce di due punti percentuali rispetto al 2020.

Molestie sessuali

Il 9% delle donne ha subito molestie sessuali: un risultato che rimane in linea con lo scorso anno (8%).  Le donne di età compresa tra i 18 e i 24 anni hanno subito più molestie sessuali rispetto agli altri gruppi di età, un dato leggermente superiore rispetto allo scorso anno (19% nel 2021, 18% nel 2020). Positiva la riduzione di molestie sessuali in alcune regioni e paesi del mondo, come l’Africa e l’India, dove i valori si sono dimezzati. In Italia la percentuale è sensibilmente inferiore rispetto alla media (4% vs 8%).

Più donne manager in azienda nel 2020

Più manager donne nel 2020. E’ quanto emerge dal Rapporto di Manageritalia sui dirigenti privati pubblicato come ogni anno in occasione della Festa della donna con un’elaborazione degli ultimi dati ufficiali Inps. I numeri parlano chiaro. Nel 2019 i dirigenti uomini erano 94.332 e le donne 21.116. L’anno seguente, il numero di queste ultime è aumentato del 4,9% (22.147) mentre è diminuito dello 0, 37% il numero degli uomini (-353). Solo grazie all’incremento delle donne, il dato totale dei dirigenti registra un incremento dello 0,59%, con 678 dirigenti in più nel 2020 rispetto al 2019.
“La crescita del numero delle dirigenti e dei dirigenti – dichiara Mario Mantovani, presidente Manageritalia – dimostra come anche durante la pandemia le aziende strutturate abbiano puntato su competenze e gestione manageriale per resistere e prepararsi a cogliere le opportunità del loro specifico mercato nel post pandemia”.

Buono, ma non sufficiente

Il dato relativo ai manager in rosa è buono, ma assolutamente non sufficiente. Nonostante la crescita, infatti, le dirigenti rappresentano il 19% del totale, a fronte di un desiderato 50% che richiederà opportune scelte e politiche sociali.
“Il fatto che a trainare la crescita dei dirigenti siano state le donne – dice ancora Mantovani – è la conferma dei fenomeni in atto: nella dirigenza privata da anni si vedono uscire coorti quasi esclusivamente maschili ed entrare nuovi manager che sempre più spesso sono donne, scelte per formazione, competenze e capacità. E tutto questo trova una spinta formidabile nel parallelo fenomeno che avviene tra le donne che ricoprono in azienda un ruolo di quadro, che avanzando poi di carriera diventano dirigenti”.
Buone notizie anche dal 2021. Secondo il Rapporto di Manageritalia, infatti, i dirigenti del settore terziario che hanno il contratto dirigenti del terziario nel 2021 sono cresciuti complessivamente del 6,2% con le donne in doppia cifra (+11%) rispetto agli uomini (+6%). E in questo caso oggi le donne dirigenti sono addirittura quasi il 21% del totale.

Il rosa vince soprattutto nelle grandi città. Con la “sorpresa” del Sud

Per quanto riguarda la distribuzione geografica, le province più ‘rosa’ sono quelle delle grandi città, con Milano al primo posto (dove lavorano 8.705 donne dirigenti) seguita da Roma (4.405) e Torino (1.132). Ai primi dieci posti per numero di dirigenti donne solo province del nord: Bologna, Brescia, Verona, Varese, Bergamo, Firenze, Genova. Per quanto riguarda invece il peso percentuale delle donne dirigenti, balza all’occhio il buon piazzamento di alcune province del sud, spesso caratterizzate da un bassissimo numero di dirigenti in assoluto e quindi più facilmente condizionati da vari fattori. Al primo posto c’è Enna con le donne dirigenti (56,7%) che superano addirittura gli uomini. Tra le grandi province Roma (le donne manager sono il 25,3%), prevale su Milano (21,8%) e Torino (17,7%).